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  • Donatella Bizzotto

I duellanti


Ardito si sentiva come un leone in gabbia.

Proprio adesso che faceva bel tempo dopo quei lunghi, interminabili, uggiosi giorni di pioggia, si era beccato un’infreddatura di quelle buone, così sua moglie gli aveva ordinato di non uscire e se n’era andata al mercato, lasciandolo solo. Sua moglie era una brava donna, eh, ma un po’ troppo reattiva. Che colpa ne aveva, lui, se quand’era raffreddato gli veniva da tirar su il naso e schiarirsi continuamente la gola? Era il caso di accusarlo di sembrare una sega notte e giorno? Il fatto è che non se la sentiva di tormentare con il fazzoletto il suo nasone alla Cyrano de Bergerac: era già abbastanza evidente, non voleva che diventasse anche rosso semaforo.

Però, naso a parte, bisogna dire che come uomo faceva ancora la sua bella figura, pensò Ardito studiandosi davanti allo specchio dell’entrata e sistemandosi meglio il colletto della felpa. Intanto aveva ancora tutti i suoi capelli. Beh, erano bianchi, ma chi non li ha, a settant’anni? E poi facevano risaltare meglio i suoi occhi azzurri che, non per dire, in gioventù piacevano tanto alle ragazze. Il fisico era asciutto, il passo svelto… Sì sì, stava invecchiando bene.

Il suo problema era uno solo: la-no-ia. Da quando era andato in pensione non sapeva più come impegnare il tempo e, a parte il piccolo orto, non riusciva a coltivare nessun hobby; si stancava subito di tutto. Così era diventato curioso e petulante. Con Gino il muratore, per esempio, che stava sostituendo il tetto di una casa vicina ma secondo Ardito avrebbe potuto fare meglio, come aveva visto fare lui in un altro cantiere. “Lavoriamo diversamente perché i tetti son diversi”, gli aveva risposto giustamente e con pazienza Gino ma tant’è, Ardito era convinto che la ragione fosse dalla sua parte e insisteva con critiche e consigli non richiesti.

Adesso, chiuso in casa, stava nella cameretta, un locale spoglio in cui c’erano soltanto un armadio a due ante, una sedia e un asse da stiro sempre aperto. Era però una stanza d’angolo che gli consentiva una più ampia visione dell’esterno, essendo illuminata da due portefinestre che si affacciavano su un balcone; da lì, la vista spaziava a nord su un piccolo parcheggio molto animato e a ovest sul giardino dei vicini. Il giardino, giust’appunto: lui lo avrebbe sistemato diversamente e per questo forniva tanti utili consigli, ma quei Bassis preferivano affidarne la cura a un giardiniere. Che diffidenti. E la figlia? Quando tornava a mezzanotte e apriva il garage facendo scorrere la saracinesca, faceva un rumore di ferraglia che lo svegliava, così lui le aveva chiesto di dare olio, o di cambiarla. ‘Non ho soldi! Me li dà lei?’, aveva risposto la ragazza ridendo. Che impertinente.

Ardito inforcò gli occhiali e guardò fuori individuando, in lontananza, i suoi punti di riferimento preferiti: il Cornella, Rocca Cisa subito di là del Tegorzo, Madal e Spinoncia, il Piz, il Pallon e il Tomba. Poi fu attratto da una donna che scaricava un trolley dal bagagliaio di un’auto e sembrava dirigersi verso la fermata della corriera davanti alla caserma. Chissà dove andava, con quelle scarpe col tacco, ti-tic e ti-toc. Se l’avesse avuta di fronte, le avrebbe detto che con le scarpe basse e comode si cammina meglio e si fa meno rumore.

Ardito era così concentrato nei suoi pensieri che non si accorse di un’ombra che passava davanti all’altra portafinestra. Improvvisamente, decise di prendere una boccata d’aria, il sole era troppo invitante. Indossò la giacca a vento, si annodò ben bene la sciarpa e uscì sul balcone. Aveva appena appoggiato le mani alla ringhiera quando qualcosa lo costrinse a fermarsi: si sentì osservato. Alzando la testa, lo vide subito: sul cornicione - a non più di quattro, cinque metri da lui - era appollaiato un grosso piccione tinta antracite e la pancia tonda di color grigio chiaro. I suoi occhietti rossi, che gli ricordarono un pezzettino di anguria con un seme nero al centro, parevano scrutare con attenzione Ardito. Il quale impugnò una lunga canna che teneva sul balcone per scacciare gli uccelli e come un alabardiere cominciò a rotearla con movimenti ampi e fendenti contro il piccione.

Per tutta risposta, anziché volare via, l’uccello atterrò a mezzo metro da lui, col becco nero semiaperto, come se stesse sorridendo.Ardito gli urlò: “Va’ via, brutta bestia!”Il piccione sembrò ascoltarlo e si gettò in planata dalla ringhiera senza scomporsi più di tanto, poi virò in alto. Ardito rimase a bocca aperta, tentando di vedere dove si era diretto. All’improvviso fu colto da una strana sensazione sulla fronte: come se una tazzina di un liquido caldo e viscoso gli fosse stata versata dall’alto, proprio in quel punto, e il suo contenuto fosse scivolato sugli occhiali e sul naso. Si toccò e con gli occhi appannati cercò di mettere a fuoco le dita bagnaticce. “Porco-qui e porco-là”: sulla sua fronte, proprio sopra il suo naso, quell’uccello dannato gli aveva spiattellato qualcosa di enorme. Mentre si ripuliva alla bell’e meglio, vide che il piccione era riapparso. Ardito era sicuro che l’avesse fatto apposta. Pensò anche che l’uccello si era appollaiato davanti a lui proprio per osservarlo e prenderlo per il naso.

In quel preciso istante, Ardito capì che avrebbe voluto tirargli il collo.

Rientrò in casa per lavarsi ma, appena attraversata la portafinestra che aveva lasciato spalancata per cambiare l’aria, si accorse che sull’asse da stiro c’era una voluminosa poltiglia verde-marrone circondata da una porzione pastosa e biancastra: un’altra me…!

Bestemmiando, Ardito chiuse la portafinestra. Sentiva salire dentro di sé la marea montante della rabbia, una forza mai provata. Era stato sicuramente lui, quel piccione. Ne era certo. Si raschiò la gola, tirò su con il naso, tossì e grugnì, senza considerare se fosse stato per il freddo o per un riscatto dell'emotività. Nel mentre sentì girare la chiave nella toppa e sua moglie che brontolava; già ce l'aveva con lui, l'aveva sentito. Oh, al diavolo. Prima avrebbe ammazzato il piccione, poi sarebbe toccato a lei. Finalmente.


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