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  • Donatella Bizzotto

Due ragazze sul ponte


Barbara (con la maglia rossa) ed io sul ponticello che unisce Villa Carrisi, allora scuola-convitto, con l'ospedale di Treviso, entrambi affacciati sulle due rive opposte del Sile.

La finestra della mia stanza era al primo piano, nella foto la quarta da destra. Dietro Barbara si intravede la mitica suor Prima.

Era il 1973 e si vivevano tempi burrascosi dal punto di vista politico e sociale. I costumi stavano mutando velocemente e anche nel convitto si poteva individuare un parametro di questo cambiamento: il permesso alle allieve interne di poter indossare i pantaloni vietati fino a due anni prima e moderate minigonne. Durante le lezioni, invece, portavamo una divisa che noi chiamavamo da orfanelle: gonna grigia a metà ginocchio che cercavamo di arrotolare in vita per accorciarla di due-tre centimetri, giacca blu e camicia o maglia bianca. Così vestite, ci mandavano di rappresentanza ai funerali di politici locali e altri personaggi importanti legati all'ospedale poiché sembrava che la nostra presenza potesse in qualche modo essere di consolazione e dare un tono di prestigio. Ci beccavano solo al primo anno.

Nel convitto la giornata tipo iniziava alle sette con il memorabile annuncio di suor Pia è ora della prima colazione che si ripeteva cinque minuti dopo. Le nostre sveglie suonavano mezz'ora prima ma capitava anche di non sentirle e allora in quei cinque minuti tra un annuncio e l'altro ci si lavava e vestiva alla velocità dei fulmini, poi ci si scapicollava giù per lo scalone per entrare nel refettorio giusto un attimo prima che la suora finisse la preghiera. Con suor Prima e suor Pia non c'erano problemi ma se casualmente c'era la direttrice suor Angiolina non la si scampava e mentre mangiavamo di gusto - la cucina del convitto era buonissima - era garantito che sarebbe arrivato il suo giudizio morale e che ci avrebbe controllato per un bel po'. Anche se avremmo fatto volentieri a meno del suo controllo prussiano, non perdevamo né il buonumore né l'appetito. Prove emotivamente più impegnative ci attendevano in ospedale.

La vita più interessante cominciava la sera dopo che la direttrice era passata ad augurarci la buonanotte e a spegnerci la luce. Ma nessuna di noi dormiva subito, alle ventuno! Chi voleva studiare andava a cercare concentrazione nelle docce. Diversamente, malgrado da quell'ora fosse vietato, si andava alla chetichella nelle camere di altre compagne per ridere, accordarsi su spedizioni top secret, ideare scherzi, parlare di tutto e dei ragazzi. Poi ci si stancava e allora si passava a toglierci vicendevolmente le sopracciglia, simili a scimmie che si spidocchiano. Sempre sottovoce e mai oltre la mezzanotte.

Dall'esterno il clima percepito era inflessibile, e spesso lo era. Ma era vitale ed animato da discussioni interminabili su tutto, dalla musica alla moda, dalla concezione del mondo alle complessità sociali. Per questo la vita di convitto non mi ha limitato a conoscere solo quello che dovevo studiare. Per tutto quello che ho visto, vissuto e condiviso è stata anche una scuola di apprendimento sociale e di introspezione: le sue materie sono state le esperienze oltre il ponticello, la solidarietà, l’amica che il primo anno mi ha dato tanto - Barbara - e dalla quale la direttrice tentò di dividermi, la compagna controversa amica anche lei, malgrado tutto. Non a caso ho scelto questa foto: la metafora del ponte rimanda alla volontà di unire.

Per la direttrice ero la signorina Bittotto. Con filosofia morale, la sua materia, mi portò a meditare sui valori che devono guidare le nostre azioni in ospedale nonché a guardare l’orizzonte dei confini della vita; ma non si trattava di cognizioni astratte dei valori ultimi, perché nel metodo educativo alla vita d’ospedale cominciavo a capire come funziona il mondo e come interagiscono i vari sottosistemi. All’epoca, il tema dell’eutanasia non era ancora diffuso e fu lei la prima a farmelo conoscere, in aula, da contraria, stimolandomi una profonda revisione che mi portò ad essere favorevole alla sua legalizzazione. Il suo ruolo di direttrice, però, portò suor Angiolina a giudicare troppo superficialmente qualcuna di noi interne facendo di tutto affinché alcune belle e profonde amicizie si interrompessero. Ma solo più avanti seppi veramente com’era andata.

Suor Prima era più aperta e spontanea, mi diede buoni consigli per ampliare le mie letture, ricordo ancora i suoi autori preferiti. Appena arrivata in convitto, era d'estate, assistetti ad appassionati e memorabili scambi su Freud tra lei e alcuni ragazzi esterni dell'anno prima del mio, e alle loro risate di gusto; ma io, in seguito, non mi lasciai mai andare a esprimere troppo le mie opinioni con le suore su certi argomenti, sapendo che altre orecchie avverse erano in ascolto, pronte a reprimende a suore o allieve indistintamente. Suor Prima era anche una romanticona. Qualche giorno dopo aver finito la scuola - ormai ero a casa - diede telefono e indirizzo ad un ragazzo mio ammiratore. Allora la privacy non si sapeva cosa fosse...

 

A Villa Carrisi ognuna di noi allieve è cresciuta secondo i suoi tempi e i suoi valori e tutto ha lasciato in noi tracce profonde. Alla fine sono dolci ricordi, ed il più forte parla di condivisione e gentilezza. Dopo, nessuna nostalgia del convitto; c’era piuttosto l’eccitazione di una vita nuova. Facile per noi, che siamo stati una generazione privilegiata.


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