La parentesi milanese di Angelica
In casa c’era bisogno di soldi.
Tra pochi mesi sarebbe arrivato un altro fratellino. Suo padre, di professione capomastro, dopo loro cinque, tutte femmine, desiderava tanto un maschio per farne un ingegnere.
La sua amica Prima si trovava a Milano già da qualche mese. Nell’unica lettera che le aveva scritto le faceva gli auguri per i suoi prossimi quindici anni e le raccontava che nella famiglia presso cui era andata a servire si trovava bene, la sua signora era buona; certo, avesse potuto tornare subito a Quero, l’avrebbe fatto di corsa, ma i soldi che mandava ai genitori erano proprio necessari, con tutti quei fratellini da far crescere. Sentiva tanta nostalgia, specie la sera, della sua casa e perfino del vento che la spettinava, ma adesso doveva terminare di scrivere, perché la sua padrona avrebbe riletto la lettera, prima di spedirla.
Angelica spense la candela e rimase al buio, sdraiata sul letto con gli occhi aperti e la lettera dell’amica fra le mani posate sul petto. Dopodomani anche lei sarebbe partita per Milano.
Un uomo d’affari, che si era fermato all’osteria per ristorarsi, aveva fornito ai suoi genitori un indirizzo fidato. Suo padre si preoccupava che non fosse un lavoro tanto faticoso, che fosse serio e che venisse trattata bene. Quell’uomo l’aveva rassicurato: Angelica avrebbe servito in un caffè frequentato da gente educata ed elegante e avrebbe dormito assieme ad altre cameriere in un appartamento all’ultimo piano dello stesso stabile.
Durante il viaggio in treno Angelica leggeva e rileggeva l’indirizzo sul biglietto, preoccupata di perderlo; perciò l’aveva imparato a memoria ma ogni volta, dopo averlo ripetuto mentalmente, andava a controllarne l’esattezza. Così per tutto il tempo.
Finalmente arrivò a Milano e verso sera, dopo un lungo tragitto a piedi, anche in prossimità del suo posto di lavoro. Man mano che il numero civico della via si avvicinava, Angelica era sempre più in apprensione. E se i padroni del caffè non l’avessero considerata idonea ai compiti che doveva svolgere? Avrebbe compreso ciò che i clienti le ordinavano in dialetto milanese? Con questi pensieri, e tanti altri ancora, Angelica arrivò finalmente alla sua meta.
"Ma qui c’è un’osteria!" esclamò ad alta voce, sgomenta.
Pensò di aver sbagliato indirizzo e lo ricontrollò un’ennesima volta sul foglietto ormai spiegazzato. Macché, era proprio quello! Era in quel posto che doveva servire?! Avrebbe voluto tornare subito a casa, ma la sua famiglia contava tanto sul suo aiuto economico… Doveva fermarsi, non poteva fare altro. Entrò.
Già sulla soglia avvertiva l’aria pesante e fumosa. L’ambiente era in penombra, ma dava l’idea di essere piuttosto sporco. Ai pochi tavoli qualche avventore, ubriaco, rivolgeva lo sguardo acquoso e fisso al bicchiere ormai vuoto. A sinistra una scala di legno portava al piano superiore; sotto la scala c’era una finestrella, l’unica, protetta da inferriate. Dietro il bancone, l’oste riempiva svogliatamente una caraffa da mezzo litro. Quando la vide la interrogò con un cenno del capo.
Angelica si fece coraggio e si presentò. Subito l’oste le rispose sbrigativamente che non era lui il suo padrone, bensì un tale che sarebbe passato a prenderla più tardi. Poteva aspettarlo seduta a un tavolo. Il cuore di Angelica riprese a battere normalmente. Per un attimo aveva creduto… Che sciocca! Si sedette, rincuorata e fiduciosa, un po’ in disparte.
Intanto il tempo passava. Si era fatto buio e i clienti dell’osteria, fattisi più numerosi, scambiavano battute con l’oste, la guardavano e poi mormoravano tra loro, scuotendo il capo. Angelica capiva che parlavano di lei e si sentiva a disagio; non vedeva l’ora che quel suo padrone passasse a prenderla. Cosa aspettava? Era mezzanotte!
Passò mezzanotte e mezza. Arrivò l’una. Nell’osteria erano rimasti solo due avventori. Uno, ubriaco fradicio, ululava tristemente una canzone ad un’improbabile innamorata; l’altro era un signore distinto, estraneo per modi ed aspetto al luogo in cui si trovava, che ad un certo punto, guardandosi velocemente attorno, si sporse verso Angelica e le disse: "Signorina, scappi! Questo non è posto per lei; si vede che è una brava ragazza, scappi!"
Angelica lo guardò interdetta, ci mise un attimo a capire il significato di quelle parole ma non se le fece ripetere due volte: afferrò il suo fagotto e corse fuori. Corse senza nessuna direzione, nella testa aveva solo il pensiero di fuggire. Quando si sentì ragionevolmente lontana, rallentò la sua corsa e si fermò a bere ad una fontanella. Si sciacquò il viso e le mani, per frenare un tremito incontrollabile e fermare i suoi pensieri. Perché le era capitato questo? Come avrebbe fatto a tornare a casa?
Finalmente si calmò ma sopravvenne la disperazione. E se quel tale l’avesse trovata?
Un rumore di zoccoli le preannunciò l’arrivo di una carrozza. Che fare? Si alzò, voleva fermarla per chiedere aiuto, ma se fosse stato lui? L’istinto, che tante volte l’aveva soccorsa, la spinse a chiedere aiuto. Il cocchiere imprecò, ma poi rallentò sino a fermarsi, preoccupato dalla sua espressione disperata. Non appena aprì la bocca per rivolgersi a lui, Angelica scoppiò a piangere. Dalla porta della carrozza si affacciò un bel viso di donna, molto elegante: "Cosa succede? Chi piange?" Si guardarono, studiandosi velocemente. Angelica spiegò concitata la sua sventura e man mano che il suo racconto prendeva forma l’espressione di quella signora si inteneriva, finché d’impeto esclamò, tendendole la mano: "Sali, verrai con me."
Da buia la notte si fece splendente di stelle; di lì a poco sarebbe iniziato un nuovo giorno.
Il periodo storico, in cui è ambientata questa storia vera, è quello finale della Belle Époque, subito antecedente la Prima Guerra Mondiale, più precisamente il 1913.
La signora della carrozza era la cantante d’operetta Gea della Garisenda, diventata celebre per la canzone Tripoli, bel suol d’amore lanciata al Teatro Balbo di Torino nel 1911. Angelica rimase al suo servizio per alcuni anni; accompagnandola nelle tournées, ebbe l’occasione di conoscere luoghi e costumi nuovi. Ricordò con dolcezza quel bel periodo, rammaricandosi di aver dovuto obbedire all’ordine del padre che la rivoleva a Quero (la guerra era iniziata), proprio quando la signora Gea le aveva donato il denaro per curarsi i denti. Così quel denaro fu usato soprattutto per il sostentamento alimentare di tutta la famiglia.
Subito dopo la guerra sarebbe toccato partire ad un’altra sorella, ma questa è un’altra storia.
Angelica era mia nonna Regina, - nel racconto ho usato il suo secondo nome - donna intelligente, determinata e coraggiosa, una femminista ante litteram a cui la vita aveva dato solo quello che si era guadagnata con la sua intraprendenza e il suo spirito resiliente - affrontando e superando peripezie continue come i grandi eroi della mitologia - e tolto sempre in modo esagerato e doloroso: tre bambini, uno dopo l’altro, dai due ai cinque anni; il primogenito di vent’anni disperso in Russia durante la seconda guerra mondiale; il marito, dopo una malattia contratta in trincea nella prima guerra mondiale, che passò gli ultimi sedici anni di vita completamente invalido, paralizzato a letto e cosciente, e che se ne andò quando io avevo un anno; l’ultimogenita - la mia amatissima zia Luciana - di quarant’anni, morta quando mia nonna ne aveva ormai ottantatre. Malgrado queste ferite mai chiuse per la perdita dei figli, seppe sempre guardare avanti trovando nuove motivazioni cosicché la sua vita difficile ebbe anche molti momenti felici: un esempio di continua rinascita.
Mia nonna Regina ai tempi della sua avventura milanese