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Donatella Bizzotto

Vacanze in colonia


La mia prima esperienza in colonia fu al Cavallino, Venezia. Eravamo tantissimi. Imparai lì a relazionarmi con bambini e adulti senza la protezione della famiglia e a vivere gestendomi un po’ da sola.

I primi giorni del primo anno furono durissimi: iniziarono con la visita medica (peso e ispezione delle tonsille e delle ghiandole del collo) e la somministrazione di un intruglio biancastro - la magnesia! - preso con il mestolo da un mastello azzurro di moplen. Beh, la magnesia servì non solo a depurarmi ma anche a non fare la schizzinosa (come prima) e usare i servizi esterni con la turca in cui temevo di cadere. La prima settimana mangiai solo pane, tè e pomodori o patate quando c’erano, perché non mi piaceva niente altro di quello ci portavano e cioè: una scodellona di caffelatte con la panna (troppo scuro, e poi la panna no!), pastasciutta condita (troppo formaggio grattugiato, troppo sugo!), pesce (mi piaceva solo il tonno!), insalata (bleah!), formaggio (che pizzicava!)... Mi riempivo la bocca e le tasche e poi buttavo tutto nel wc, immaginatevi. Dopo sette giorni ero affamata. Fu così che provai a imitare gli altri e finalmente mi aprii ai nuovi sapori scoprendo che non erano così male, anzi! Le comunicazioni con la famiglia avvenivano tramite cartolina postale, dovevamo portarne due come corredo e con l'indirizzo dei destinatari già scritto. Il primo anno scrissi ai miei che stavo bene e di salutarmi mia sorella, e con quelle poche parole riempii tutto lo spazio; il secondo anno avevo altro da fare: dovevo raffinarmi per portare a termine senza errori un gioco di abilità ‘da pirati’ che andava per la maggiore usando, al posto del coltello, uno stecco di legno o un fil di ferro.

Bagni nell'Adriatico ne facevamo pochissimi. Un giorno il mare era mosso, un altro giorno soffiava troppo vento... Quando finalmente c'era bonaccia, arrivava solennemente in spiaggia l'assistente sanitaria che brandiva il termomentro come fosse stato una spada; poi, con studiata enfasi affinché non perdessimo neanche un movimento di tutta la procedura, entrava in acqua con il camice ed eseguiva la misurazione. Noi tutti seguivamo i suoi movimenti in un silenzio carico di aspettative e.... arrivava ancora un NO! Stavolta l'acqua era troppo fredda, lo diceva il termometro, "e se lo dice il termometro...". Naturalmente protestavamo. Qualcuno di noi era sicuro che l'assistente sanitaria avesse misurato troppo in là dove l'acqua è più fredda, altri pensavano che barasse. Intanto guardavamo i bambini dell'altra colonia che sguazzavano felici in acqua - "perché loro sì e noi no" - e ci saremmo accontentati di sdraiarci sul bagnasciuga e farci lambire dall'acqua. Alla fine bagni in mare ne facemmo tanti quanti quelli di pulizia, uno alla settimana e accontentarsi.

La parte più noiosa della vita in colonia era dedicata alle passeggiate; in fila per due si percorreva via Radaelli, poi si prendeva la Provinciale. Lungo il percorso non incontravamo nessuno. Le automobili erano rarissime e quando se ne avvicinava una dovevamo metterci in fila indiana a bordo strada. Finalmente si arrivava a Ca' Ballarìn dove c'erano un bar, un piccolo emporio in cui il primo anno acquistai un bellissimo galletto di vetro colorato da portare a mia mamma, e una cassetta postale.

Uno dei momenti che preferivo era dedicato al canto. In attesa che aprissero il refettorio ci intrattenavano con filastrocche da cantare e mimare tutti insieme tipo La macchina del capo ha un buco nella gomma o con canti scout più seri come John Brown giace nella tomba là nel pian... Poi c'era l'alzabandiera giornaliero, prima del quale si recitavano le preghiere; di seguito, un bambino prescelto per buoni motivi aveva l'onore di innalzare il tricolore sul pennone vicino alle camerate mentre tutti cantavamo l'inno di Mameli.

E le tremende "signorine"? Giovanissime - la mia aveva 16 anni - erano state istruite in pochi minuti ad esigere "silenzio assoluto e che non si muova muscolo” durante la tortura del riposino pomeridiano nel grande dormitorio. Poi però, col passar dei giorni, maturando esperienza e sicurezza (loro) e adattandoci alle regole di comunità (noi), scoprivamo che non erano così male e potevano ricordarci le nostre cugine più grandi. Erano pure simpatiche e nel silenzio del camerone mi feci una cultura sentendole scambiarsi alcuni rimedi contro le scottature, i capelli grassi e le delusioni amorose.

Una notte tenni la mano sulla fronte ad una bambina che vomitava e la mia signorina volle che l’alzabandiera, la mattina dopo, toccasse a me.


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