La missione di Emma
Non so se avesse sempre svolto quella professione. La vedevi camminare velocemente lungo le vie del paese a qualsiasi ora del giorno, linda e modesta; tra le mani custodiva il suo piccolo bagaglio d'alluminio. Ogni tanto veniva fermata da qualche persona, per lo più donne, con le quali s'intratteneva parlando a bassa voce per pochi minuti, poi le salutava guardandole con i suoi occhi buoni e riprendeva lesta il suo cammino. Aveva un sorriso dolce, lo sguardo mansueto e confortante; nell'insieme la sua personcina rivelava garbo e riservatezza, quasi volesse ridimensionare quel soprannome che si portava dietro, Abbondanza, che le aveva tramandato la sua famiglia.
Possedeva il gran dono dell'empatia. Sapeva cogliere le sfumature dei caratteri e dei bisogni quando qualcuno doveva riconciliarsi con una malattia o era tormentato da un susseguirsi di sofferenze. Emma era consapevole del delicato compito che si era assunta, ben sapendo che il soffrire e il morire fanno parte del mestiere di vivere. Inconsapevole vestale, simile ai monaci di molti monasteri che dedicano un po' di tempo ogni giorno alla contemplazione della morte come condizione per imparare a vivere, era meglio di un'amica in cui si poteva trovare sicurezza e conforto, pronta ad occuparsi di chi le veniva affidato per l'ultimo viaggio. E ancora: c'era un malato da assistere e la famiglia non poteva farlo, qualcuno necessitava di una cura di punture... A chi ricorrere? A Emma.
Quando intorno agli undici anni ebbi bisogno di fare un’iniezione, mi recai nella sua casetta all'interno di un cortile nella parte alta di via Roma. Lei mi stava aspettando accogliente e professionale mentre sul fornello a gas si sterilizzavano l’ago e la siringa di vetro nel piccolo bollitore di alluminio. Avevo una fifa terribile ma per non darlo a vedere mi diedi un tono facendo un po’ di domande, lasciando per ultima quella che mi interessava davvero: ‘Farà male?’
Emma mi rispose pazientemente; poi, mentre tagliava la fialetta con un seghetto minuscolo, disse ferma: ‘Voltati.’
Mi fece l’iniezione in un attimo che quasi non me ne accorsi. Fiu!
Emma era quello che si dice un'autodidatta. Probabilmente aveva appreso ciò che sapeva carpendo con l'intelligenza quello che aveva visto fare da altri, poi si era documentata come aveva potuto. Anche senza diploma era una bravissima infermiera.
A quei tempi gli aghi non erano taglienti come quelli odierni che hanno una punta a lancia netta tagliata col laser, si riutilizzavano finché era possibile sagomare la loro punta; le siringhe, di vetro, dovevano bollire a lungo, altrimenti i dolorosi ascessi erano assicurati. Per fare le iniezioni era quindi necessario seguire alcune norme igieniche più complesse di adesso, che c'è tutto pronto e da usarsi una sola volta; poi bisognava avere la mano leggera per far appena sentire la puntura di quel tipo di aghi.