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  • Donatella Bizzotto

Un lungo viaggio


''Ma sono le piccole cose, disse egli una volta, che formano il senso della vita.'''

Stefen Zweig, citando Dickens

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Viveva su uno dei colli dell’alta valle di Schievenin, aspra come l'esistenza che conducevano i suoi abitanti.

Valle di Schievenin, comune di Quero Vas (Belluno)

Lui, che era il primogenito mite e servizievole, doveva badare a due fratelli e due sorelle nati dopo di lui. Molti anni più tardi, quando era soldato in partenza per Adua, nacque Rosina, l’ultima sorellina. Suo padre, piuttosto eccentricamente, non aveva voluto che i suoi figli maschi andassero a scuola. "C’è bisogno delle vostre braccia!", sentenziava. Invece le figlie dovevano istruirsi per educare i bambini che avrebbero avuto.

Bepi soffriva per questo. Sentiva le sorelline che ripetevano l’alfabeto, correggendosi a vicenda se le lettere non seguivano l’ordine giusto, e cercava di imparare a memoria quello che sentiva. Un giorno si fece coraggio e chiese a suo padre di insegnargli a leggere e a far di conto, se proprio non voleva mandarlo a scuola: per dimostrare la sua buona volontà gli ripeté l’alfabeto appreso dalle sorelle.

Suo padre si convinse. "Ci vuole il sillabario, però." aggiunse. "So io come procurarmelo!", esclamò felice Bepi. Da quel giorno, mentre guardava le bestie che pascolavano, il ragazzo intagliò pipe e scatole per tabacco da fiuto. Quando ne ottenne un certo numero, decise di metterle in vendita esponendole fuori dalla chiesa, dopo le messe della domenica, poi aspettò trepidante. Non fu deluso: le sue clienti furono soprattutto donne anziane tabaccanti o incuriosite dalla novità e finalmente si trovò fra le mani i pochi soldi necessari per acquistare un sillabario usato.

Corse a casa con il suo tesoro di carta, felice di mostrarlo a suo padre che doveva essere il suo insegnante. La sera dopo, questi gli ordinò burberamente di copiare l’alfabeto dal sillabario. Bepi lo fece come meglio poteva, ma qualche piccolo errore fu inevitabile. Allora suo padre chiuse spazientito il sillabario, sbottando: "Sei uno zuccone, non vale la pena insegnarti niente!" E cessò di fare il maestro.

Ma il nostro Bepi non si arrese. Con grande caparbietà, copiando le lettere del sillabario prima con stento poi più abilmente, e intuendo dalle immagini riportate sul libro che a lettera uguale corrispondeva uguale suono, imparò a leggere e a scrivere senza chiedere mai aiuto alle sorelle, per timore che lo svelassero al padre e che questi si infuriasse con lui.

Negli anni successivi, questa sua determinazione fuori dal comune lo aiutò a reagire alle sventure che gli caddero addosso. La sua vita piena di vicissitudini e peripezie potrebbe ricordare per certi versi quella degli eroi dickensiani che alla fine riescono a trovare un futuro sereno grazie alla fiducia nel bene e all'aiuto di persone di buon cuore.


Partì con l’amata moglie Teresa per la Germania, da emigrante. Là rimase vedovo, con due figlioletti piccolissimi, un bimbo di un anno e una bimba di quattro. Poco dopo scoppiò il primo conflitto mondiale e furono costretti ad abbandonare la Germania, perché gli italiani erano ritenuti nemici della nazione tedesca, così come l'Italia era nemica della Germania. Il ritorno in Veneto, già teatro della Grande Guerra, fu lungo e difficile. Si diressero verso la frontiera austriaco-bellunese ma fu impossibile attraversarla perché le operazioni belliche, seppur di minore portata, in quel periodo stavano prendendo vita proprio sui rilievi alpini orientali e in particolare nella zona delle Dolomiti. A quel punto Bepi e i suoi bambini, per poter entrare in Italia, dovettero percorrere un lungo giro passando dalla Francia. Immaginate.

Arrivarono in Piemonte nei territori all’inizio della valle de Po, ma anche lì non c’era lavoro. Così Bepi, con la morte ne cuore, affidò temporaneamente la bambina alle suore di un istituto di Cavour e il bambino a sua sorella Rosina, e partì per l’America assieme ad altri piemontesi in cerca di lavoro e di fortuna. La traversata durò quaranta giorni per lui e i suoi compagni ammassati nelle stive assieme a qualche capo di bestiame. Approdati in Argentina, si sparpagliarono nelle regioni dove ancora oggi si parla il piemontese arcaico di quell’epoca. Bepi riuscì a raggranellare in tre anni un esiguo risparmio che gli consentì di tornare dai suoi bambini, comprare il necessario e qualche attrezzo da lavoro. Rimase in Piemonte, e in quella regione generosa finalmente trovò casa e lavoro. Faceva da madre e da padre, confezionava le scarpe e i vestiti per tutta la famiglia, piccoli mobili per la casa e tutto quanto poteva servire per la vita quotidiana.

Cercò di curare gli interessi dei figlioli, reclamando la loro parte di eredità di una piccolissima casa dei nonni materni, accanto alla chiesa, ma invano. Così, amareggiato, si stabilì definitivamente in Piemonte con sua figlia Elisa, e anche la storia di lei sarebbe da raccontare.

Bepi fu sepolto a Cavour accanto al figlio morto che la seconda guerra mondiale gli aveva preso, e ora li ha raggiunti anche Elisa. Dal piccolo cimitero si vedono vicinissime le Alpi.



Andare là dove altro ci può essere. Ma "Dove stiamo dunque andando?" si chiede Novalis nell’Enrico di Ofterdingen, il suo famoso romanzo incompiuto nel quale l’odissea del viaggio alla ricerca del fiore azzurro appare come metafora della vita, o della nostra vera identità. "Sempre verso casa" è la risposta.

La Rocca di Cavour e il Monviso.



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