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Donatella Bizzotto

Un ginocchio blu


Per ambientarmi ero arrivata alla scuola convitto un paio di settimane prima dell’inizio delle lezioni. Non c’erano ancora allieve del primo anno ma non mi sentivo sola; vivevo quel momento di attesa assorta nei miei pensieri oppure immersa nella lettura di opere di Pirandello, la mia passione in quel periodo. Dividevo la camera con Nerina, una ragazza di poche parole che avrebbe iniziato il secondo anno. Stava svolgendo il tirocinio in chirurgia e anch’io ero stata assegnata a quel reparto. La sera della vigilia le chiesi: ‘’Cosa mi faranno fare?’’

''Non saprei, dato che le lezioni di pratica non sono ancora cominciate e suor Lucia la caposala in questi giorni non c’è.’’', rispose Nerina. ‘’Però mi raccomando, saluta il primario non appena mette piede in reparto. Arriva intorno alle otto, quando non opera. Ah, non aspettarti che lui ti saluti, non lo fa mai con le allieve.’’

‘’Ma come lo riconoscerò?’’

‘’E’ vecchio, magro e con pochi capelli bianchi.’’ E si mise a dormire.

Cominciai a sperimentare la realtà dell’ospedale. Ero quasi sopraffatta dalla complessità delle emozioni scaturite dalla sofferenza. Vedevo medici e infermieri saldi e sicuri di se stessi mentre io cercavo di dominare il mio turbamento con l’autocontrollo e la volontà di proseguire il mio cammino. Fortunatamente ero impegnata con piccole incombenze: per una settimana piegai garze, feci batuffoli, lavai i termometri, raddrizzai gli aghi spuntati e passai il mandrino nel loro lume; durante la seconda imparai a fare i letti sotto la guida di Agata, una ragazza ugandese di cui ricordo ancora la risata contagiosa. Agata aveva preso molto a cuore il suo ruolo didattico e con il rigore di una signorina Rottermeier mi insegnò a fare i letti senza la minima piegolina, con il lenzuolo pendente in ugual misura da entrambi i lati e con gli angoli precisi precisi.

In chirurgia arrivò anche un’allieva del mio anno; era meno impacciata di me, forse perché aveva frequentato il corso Pioneri in Croce Rossa. Le piaceva scherzare affibbiando l’appellativo di quajòto (piccola quaglia in trevigiano) a chi tra allieve e allievi appariva impaurito o timido oppure carente di fini doti intellettive, ma non esitava a definirsi lei stessa una quaja. Con Barbara ci intendemmo subito, eravamo complementari, tanto che diventò una delle mie migliori amiche e lo è tuttora.

Ci misero in turno insieme. Imparammo a mettere e togliere le padelle e i secchi delle comode per i bisogni corporali, vuotarli e lavarli. Nel turno dalle diciannove alle ventuno facevamo praticamente solo quello. Meno male che c’era lei, a sdrammatizzare. Così, quando dopo l’ora della visita parenti ci si incontrava nel corridoio ormai deserto con i secchi da vuotare, fingevamo di incontrarci durante una passeggiata nel bosco; poi, furtivamente, ci complimentavamo a vicenda per il profumato raccolto di fiori che avevamo nel cestino.

Nel frattempo, se ero in reparto di mattina, non dimenticavo di tenere d’occhio la porta d’ingresso al reparto nel caso fosse arrivato il primario. Un martedì poco prima delle otto vidi entrare un signore magro e anzianotto con in mano una cartella panciuta; indossava un camice candido e diversi uomini ricoverati gli si avvicinarono. Lo salutai anch’io ma subito non sembrò notarmi, era troppo impegnato a parlare; poi, invece, mi rivolse un allegro buongiorno e varcò una porta misteriosa assieme ad uno dei pazienti, mentre gli altri si sedevano su una panchina aspettando il loro turno.

In convitto, intanto, erano tornate dalle vacanze estive Sonia e Lina, due allieve del secondo anno con le quali Barbara ed io ci trovammo subito bene e facemmo gruppetto; Lina occupava il terzo letto della nostra camera. Finalmente iniziarono le lezioni e conobbi anche i miei compagni di classe. Era il periodo della fiera di San Luca e un pomeriggio andammo al luna park. Ci divertimmo tantissimo.

Il giorno dopo Nerina mi fissò un ginocchio. ‘’Hai un segno blu. Hai preso una botta?’’

’Boh… Forse ieri sugli autoscontri. Non me n’ero mica accorta...’’, risposi guardandomi la macchia violacea grande come una moneta da cinquanta lire. Ma in ospedale, più tardi, urtai il livido contro una sedia e la sera il segno delle due botte aveva il diametro di un piccolo mandarino.

‘’Conosci un rimedio per nascondere questo blu?’’, chiesi a Nerina, che distesa sul letto dopo un turno molto impegnativo sfogliava stancamente una rivista prima di addormentarsi.

‘’Ci vorrebbe del Lasonil, ma è troppo tardi per andare in farmacia. Potresti mettere il ginocchio sotto l’acqua fredda.’’, mi rispose la mia compagna di camera sollevando lo sguardo. Poi si corresse: ‘’Uhm, aspetta. No. Devi metterlo sotto l’acqua calda.’’'

In camera avevamo un piccolo lavandino; lo riempii subito di acqua caldissima e ci infilai il ginocchio blu piegando la gamba corrispondente e reggendomi in piedi sull’altra. Ero in quella posa artistica da una decina di minuti quando entrarono Lina e Sonia. ‘’Come vasca da bagno è un po’ piccola!’’, esclamò ridendo Lina, stupita di trovarmi in quella strana posizione. Raccontai loro tutta la storia. Ci fu una discussione fra le tre: acqua fredda o acqua calda? Ascoltavo ammirata le loro disquisizioni.

’No, no! L’acqua deve essere fredda per provocare una vasocostrizione!’’, sbottò Sonia togliendo il tappo del lavandino e aprendo il rubinetto dell’acqua fredda. Ma non servì, ormai il danno era fatto: ero un’allieva con un ginocchio un po’ gonfio e tutto blu.

L’indomani tornai in reparto. Mi stavo dirigendo verso l’infermeria quando il dottor V., un giovane chirurgo che arrossiva facilmente, puntò lo sguardo sul mio ginocchio. “Signorina, cos’ha fatto al ginocchio?’’ Farfugliai qualcosa, mica potevo dirgli dell’autoscontro e dell'acqua calda! Così gli raccontai una parte della verità: che avevo preso due botte di seguito, l’ultima delle quali era avvenuta contro una sedia del reparto. V. mi indicò perentoriamente di seguirlo nell’ambulatorio, di abbassare i collant e di sedermi sul lettino con i piedi posati sulla scaletta. Poi si sedette su uno sgabello di fronte a me e concentrato toccò leggermente il ginocchio blu.

’Le fa male?’’, mi chiese serio. ‘’Appena appena.’’, risposi, ma cominciavo a preoccuparmi.

''Signorina, dovrà mettere questa pomata due volte al giorno, nel modo che le mostrerò. Mi raccomando, lo faccia, perché se questo versamento non si assorbe c’è il rischio che si debba aspirare con un grosso ago.’’ Mi vedevo già trafitta e nel contempo, per farmi coraggio, pensavo che a San Sebastiano e ad Attilio Regolo era andata molto peggio con gli oggetti puntuti.

Il dottore stava ultimando l’impacco quando improvvisamente si spalancò la porta e apparvero una suora e un vecchio medico che non avevo mai visto. Ci girammo di colpo verso di loro: ci stavano fissando ostili con lo sguardo severo e terribile di chi vede il Male. Senza sapere perché mi sentii colpita nell’anima, come se avessi fatto qualcosa di tremendo, poi temetti che qualcuno li avesse informati del ginocchio nell’acqua calda. Guardai interrogativa il dottore che aveva appena staccato la mano dal mio ginocchio e si era alzato in piedi più rosso che mai; anche lui era a disagio, intimidito. Il vecchio medico gli ordinò di seguirlo. Poi, sentendomi mormorare un grazie al giovane dottore che mi aveva curato, ci ghermì entrambi con lo sguardo malefico di un rapace. Infine girò i tacchi e uscì.

Ero ancora seduta sul lettino, mortificata senza motivo, quando la suora mi disse asciutta di raggiungerla nel suo ufficio: fu così che conobbi la caposala suor Lucia.

Mi mandarono in vacanza dal tirocinio ospedaliero per una settimana finita la quale il ginocchio era diventato ormai verde-giallognolo. Trovai ingiusta quell’esperienza di pregiudizio e tuttavia, quando tornai in reparto, prudentemente mi tenni sempre lontana dal dottore che mi aveva curato il ginocchio; lui fece altrettanto.

In seguito ebbi modo di farmi conoscere meglio da suor Lucia. Credo che si sentisse un po’ in colpa per avermi mal giudicata perché non ebbi mai più il minimo rimprovero da lei, tant’è vero che quando una compagna di corso rompeva inavvertitamente un termometro rischiando l’immancabile severo rimprovero, me ne assumevo la responsabilità e tutto finiva con un sorriso magnanimo di comprensione e di perdono.

Non ricordo di aver incontrato ancora così da vicino come quel giorno quel vecchio medico, ovvero il primario prof. C., scoprii dopo. Meglio così, mi era rimasto antipatico. Invece ricordo con simpatia quell'anziano e cordiale signore con il camice bianco e la valigetta in mano che avevo scambiato per lui: era il barbiere.


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