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Donatella Bizzotto

Mi amòr


Vicenda in tre atti e un epilogo tratta da una storia vera

Atto primo

Adalberto Pavàn detto Berto era un simpatico viveur, cordiale, affidabile e pieno di amici. Scapolo per vocazione e grande seduttore, aveva sempre obbedito a una sua morale: le donne degli amici non si toccano, le sposate nemmeno. Era balbuziente e abilissimo barzellettiere, corredo che utilizzava con gran faccia tosta per divertire l’uditorio e soprattutto le Gentili Signore.

Dopo il diploma di ragioniere, aveva deciso di continuare l’attività di famiglia Onoranze Funebri Paradiso a cui lui aggiungeva, presentandosi serio serio alle ragazze: “E v-vaai all’a-al di l-là c-con il s-sorriso”; e giù battute e risate, lui per primo.

Gli affari prosperavano e i suoi speravano che si decidesse a metter famiglia come i suoi amici ma lui: “Ho la v-vo-caazione al c-celibaato.” E l’aveva mantenuta.

Finché, a settantasei anni, il destino gli aveva tirato uno scherzo. Durante un corso di salsa e bachata alla scuola di ballo Tumbatumba, aveva perso la testa per due seducenti sorelle caraibiche color caramello, scaltre e bellissime, che in breve tempo erano riuscite a trasformarlo in un bancomat. Lo chiamavano “Mi amòr” e lui, abbagliato dalle loro moine, sganciava. Anzi, se avesse potuto le avrebbe sposate entrambe. I suoi amici non lo riconoscevano più e temevano che le due subdole avventuriere gli avrebbero prosciugato definitivamente il conto in banca con espedienti disonesti.

“M-macché!”, sbottava Berto. “Haa-hanno deetto che s-sono già sp-sposate. P-per uuna v-volta c-che avrei c-ceduuto anch’io a m-mettermi l-la f-fede al dito.”

Un giorno le due caraibiche raccontarono a Berto che la loro sorella più giovane avrebbe tanto voluto rivederle ma non avevano i soldi per pagarle il viaggio.

“E’ bella come voi?” Chiese loro Berto con gli occhi luccicanti.

“Di più!”

Finì che Berto le pagò il volo da Tegucigalpa e quella sera, in attesa che atterrasse, brindò più volte con del Prosecco assieme alle due sorelle. Quando finalmente la ragazza apparve nella sala arrivi, lui vedeva il mondo annebbiato già da un po’ e lì per lì non la riconobbe; gli sembrava che il suo viso non corrispondesse per niente a quello bello della foto che le sorelle gli avevano mostrato. Stava per dirlo quando sentì cedere le ginocchia; si ricordò del troppo vino bevuto, si allentò il nodo del suo Ascot, si sedette. Poi per un attimo, ma solo per un attimo, gli balenò l’idea che si trattasse di cataratta. ”Ma cosa mi salta in mente?” Allontanò il pensiero, lui si sentiva giovane, e poi suo padre l'aveva tolta a ottant'anni.

Intanto, dopo i calorosi saluti di rito, le tre sorelle lo raggiunsero e lo stordirono con un mulinello di sguardi, sorrisi, ammiccamenti.

L’indomani si svegliò in una camera d’albergo. Accanto a lui dormiva una ragazza color cannella, bruttina, grassoccia, primitiva. Fece due più due e decise che non voleva assolutamente un figlio da lei. Cosa gli era preso a settantasei anni? Ah, quelle due l’avevano irretito. Si sentì preso in giro. Scese in portineria, pagò il conto e avvisò le due ammaliatrici che potevano venire a prendersi la loro sorella, poi sparì dal mondo.

Atto secondo

Tornò un mese dopo ma non rivelò mai a nessuno dov’era stato. Nel caffè di Piazza Flaminia le battute spiritose non si contavano; chi gli chiedeva se si era ricoverato in una casa di riposo, chi se si fosse rifugiato in un convento, chi se fosse stato a spassarsela in qualche posto trasgressivo. Berto assumeva allora un’espressione solenne e ieratica, come a voler dimostrare un distacco dalle cose materiali; poi spalancava le braccia tenendo i palmi delle mani rivolti verso l’alto, congiungeva i pollici con gli indici a cerchio e pronunciava un O-oo-oo-om che non finiva più anche per via della balbuzie. Era irresistibile, e immancabilmente esplodeva la risata: impossibile non ridere, lo facevano tutti lui compreso. Fu in quel periodo che lo soprannominarono mahatma.

Passavano i giorni. Ormai Berto si sentiva abbastanza disintossicato dalle due maliarde e riprese la solita vita, compresi gli incontri settimanali con i suoi vecchi compagni delle elementari: Agnese, Tino, Piero, Olimpia e i rispettivi consorti, a cui si era aggiunto Remo, più grande di loro di otto anni, che era appena rimasto vedovo.

Ma tre mesi dopo, purtroppo, le due sorelle si rifecero vive.

Erano bellissime, gentilissime, affettuosissime e Berto non ci mise cinque minuti per subire nuovamente il loro incantesimo.

“Hola, querido!”

“Mi hermanito!”

“Perché hermanito?” Chiese Berto insospettito, che pur con gli occhi incollati alle vicinissime e profumate scollature aveva ancora un dito dei piedi che toccava terra. “Porque sì! Nuestra hermanita va a tener un bebé: es tu hijo, Berto! Tienes ganas de ser un padre?”

La notizia arrivò come un fulmine. Berto si sentiva confuso, gli girava la testa, sudava freddo. Non riusciva a staccare gli occhi dalle scollature e allo stesso tempo si immaginò con un neonato in braccio. Impallidì, dovette sedersi e prender fiato. Poi svenne.

Tre mesi più tardi ancora non si capacitava, come era finito in questa situazione? Non avrebbe mai immaginato di diventare padre. Però l’idea di un figlio, che inizialmente lo aveva sconvolto, adesso cominciava a prendere forma. Aveva perfino sentito battere il suo cuoricino mentre aspettava Yanira durante l’ecografia. Si era commosso. Meno male che c’erano Vicenta e Ventura, loro sì che sapevano cosa serve a una mamma in attesa: vestiti premaman, massaggi, creme antismagliature per il viso e per il corpo, parrucchiere per rinforzare i capelli. Berto non aveva mai speso così tanti soldi; anche in gastronomia e al ristorante, perché Yanira aveva sempre la nausea e non se la sentiva di cucinare. Se solo fosse stata meno triste, e un po' più bella…

Olimpia e Agnese gli chiedevano se avesse perso il senno. “Svegliati, non vedi che quelle tre ti stanno spennando? Se ne vanno insieme all’istituto di bellezza e ci stanno per ore. E fanno acquisti nelle migliori boutiques, non per il bambino ma per se stesse!” Berto si riproponeva di imporre un aut aut al trio spendaccione ma poi ricadeva nel sortilegio delle due belle incantatrici e sganciava. Finì che la culla e i primi vestitini li acquistò lui stesso accompagnato da Olimpia e Agnese.

Atto terzo

Quando a Yanira si ruppero le acque mancava ancora un mese e mezzo al termine della gravidanza. Berto era preoccupato che il bambino finisse in incubatrice ma Vicenta e Ventura lo tranquillizzarono: i neonati, nella loro famiglia, nascevano tutti di cinque chili, forti e sani.

Cominciò il travaglio e l’ostetrica gli chiese se voleva entrare in sala parto per far compagnia a Yanira e veder nascere il loro bambino.

“Preferisco aspettare fuori, signora. Ho paura di svenire. Però ho bisogno di parlarle due minuti in privato, posso?”

“Veniamo anche noi!”, aggiunsero subito Vicenta e Ventura abbrancando Berto con sollecitudine.

L’ostetrica le fermò. Il loro atteggiamento era ambiguo e tutto lasciava supporre che stessero turlupinando quell’anziano signore troppo dipendente dal loro fascino. Anche il comportamento di Yanira non era chiaro: quella ragazza taciturna e sfuggente dallo sguardo triste sembrava assoggettata alle due sorelle che parlavano sempre al suo posto e la controllavano con sguardi rapaci fintamente amorevoli.

“Ecco, signora. Volevo chiederle se in questo ospedale fate il test del DNA. Sa, quando sono solo ripenso a tutto e mi viene il dubbio che il bambino non sia mio. Non vorrei diventare come san Giuseppe.” E Berto iniziò a raccontarle la storia dal principio.

Ma intanto le contrazioni si intensificavano e l’ostetrica dovette interromperlo per assistere Yanira. Quella ragazza che nell’acme della contrazione si teneva la pancia sussurrando “Mi amòr, mi amòr…” le faceva tenerezza e se la tenne vicino come una figlia. Attese che il suo cuore si aprisse e il travaglio si completasse. Finché, poco prima delle spinte, quel “Mi amòr” diventò un grido disperato. Ma non per il dolore fisico causato dall’utero che si contraeva; quel grido proveniva dall’abisso dell’anima. L’ostetrica strinse delicatamente la mano di Yanira come per dirle “non sei sola, lasciati aiutare”.

La ragazza, guardandola per la prima volta negli occhi, le ricambiò la stretta e finalmente, da dov’era stato nascosto e prigioniero per mesi, emerse il nome del suo amore: “Ramon es mi amor, él es el padre de mi hijo, solo él! Voglio dirlo a Berto, chiamatelo, por favor.”

Un po' per essersi liberata dal peso e un po' per quella pausa dalle contrazioni che di solito precede il periodo espulsivo, Janira si rilassò e si addormentò profondamente per dieci minuti. Ristorata, portò a termine con fiduciosa convinzione il suo compito di mettere al mondo. Pablito nacque in fretta e il suo vagito vigoroso superò le pareti della sala parto diffondendo vivacità e buonumore nella sala d’attesa. Ma non sarebbe mai passato per un settimino secondo i piani delle due zie imbroglione; le ecografie parlavano chiaro, e anche i suoi piedini, e poi pesava quattro chili e seicento grammi.

Berto, intanto, era stato fatto accomodare in una stanza all’interno della sala parto; l’ostetrica aveva voluto proteggerlo dalle due belle vampire, quel poveruomo aveva bisogno di raccogliere le idee. Lui si sentiva sollevato che fosse andato tutto bene ma aveva un’aria sconvolta, sembrava invecchiato di dieci anni. Un’ora dopo finì di raccontare la sua storia e l’ostetrica ritenne che era arrivato il momento che lui e Yanira si parlassero finalmente a cuore aperto.

Epilogo

Berto, ormai affezionato all’idea di diventare padre, decise che quel bambino andava aiutato negli studi, se un giorno ne avesse dimostrato l’attitudine; aiutò Yanira durante i pochi mesi in cui lei restò in Italia, poi pagò il volo verso i Caraibi per lei e Pablito. Di Vicenta e Ventura non seppe più nulla, erano sparite dopo aver realizzato che lui non era più un pollo da spennare.

Spediti Yanira e il bambino, festeggiò con i suoi vecchi amici al caffè di piazza Flaminia e offrì da bere a tutti i presenti: per poco non era diventato un altro San Giuseppe, si considerava un miracolato. Tutto il caffè convenne con viva partecipazione.

E poi: era o non era il mahatma? Berto riassunse l’espressione solenne e ieratica del distacco dal mondo, spalancò le braccia tenendo i palmi delle mani rivolti verso l’alto, congiunse i pollici con gli indici a cerchio, poi distese le mani a piatto e le portò velocemente verso l’inguine pronunciando un O-oo-oo-om infinito. Nel caffè scoppiò un boato festoso, Berto era ritornato se stesso.

In seguito, a perenne ricordo dello scampato pericolo, si comprò un canarino e lo chiamò... Indovinate come!


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