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  • Donatella Bizzotto

Alla ricerca di Remo


Agostino Spinetta, Tino per gli amici, guidava rimuginando tra sé mentre si recava al cimitero della sua città natale per portare i fiori freschi sulla tomba della moglie. Erano vent’anni che ogni giovedì compiva quel pellegrinaggio di quaranta chilometri fra andata e ritorno ma non gli pesava, anzi. Strada facendo ripercorreva il tempo trascorso assieme alla sua Elvira e, a ogni paese che attraversava, cambiava ricordo.

A Fontanafresca, per esempio, gli tornava in mente il giorno in cui l’aveva vista per la prima volta e aveva sentito il cuore fare pum-pum. “Com’è bella!”, aveva pensato, riconoscendo in lei una qualche somiglianza con l’attrice Ivonne Sanson, una gran bella donna che però nei film rideva pochissimo, forse perché le assegnavano sempre ruoli da tragedia strappalacrime. La sua Elvira, invece, rideva volentieri e i suoi denti sembravano perle luminose. A Treville ricordava l’intensità dei momenti legati alla nascita della loro prima figlia; Possiano, invece, era il luogo in cui si fermavano con le bambine per assaporare le deliziose meringhe della pasticceria Roccacò. E così via.

Quel giovedì, però, non furono i ricordi di Elvira a fargli compagnia; da un mese il suo amico Remo era introvabile e la preoccupazione che gli fosse successo qualcosa rodeva Tino Spinetta come un tarlo fastidioso. L’ultima volta che si erano visti era stato in occasione dei novantadue anni di Remo, otto più di Tino e degli altri membri della compagnia Piero, Vittorio, Olimpia e Agnese - tutti vedovi - e Berto, l’unico scapolo dalla vita gaudente.

Da quando si conoscevano, erano i tempi delle elementari e dei giochi in piazza Flaminio, Tino e i suoi amici non avevano mai passato un Natale senza scambiarsi gli auguri nel caffè della piazza. Per non parlare del primo giorno dell’anno: fino a quando c’era stata Elvira, pranzavano tutti da loro con le rispettive famiglie, e ognuno portava qualcosa di pronto da mangiare; Berto portava il panettone e la frutta secca, e l'ultima fiamma.

Poi i figli erano diventati grandi e avevano iniziato a festeggiare altrove. Loro uno alla volta avevano perso i rispettivi compagni. Così, dopo aver compiuto settantacinque anni - Remo intanto ne aveva ottantatre - avevano accettato la proposta di Olimpia e Agnese: ritrovarsi per il pranzo di capodanno alla trattoria di piazza Flaminio e poi stare insieme fino a sera a casa di una delle due, che abitavano a due passi in due appartamenti adiacenti.

Eh, bisogna dire che le ragazze sono sempre più avanti.

La visita ad Elvira fu più breve del solito. Tino si scusò ma aveva appuntamento con i ragazzi al caffè della loro piazza, sede dei loro appuntamenti del giovedì, per parlare di Remo. “Siamo preoccupati, sai, Elvira...” Elvira capì.

C’erano tutti. Nel caffè addobbato per Natale si respirava aria di festa e di attesa. Ordinarono sei cioccolate calde e iniziarono a fare il punto della situazione. In piazza Flaminio e dintorni nessuno aveva più visto Remo da novembre. Il suo cellulare era spento. Agnese e Olimpia erano andate a citofonare a casa della figlia, un’antipatica, che aveva risposto brusca: suo padre si era stabilito definitivamente da lei ma ora era in vacanza al mare. No, non ricordava il nome della pensione e comunque non glielo avrebbe detto. Che le scusasse ma ora aveva da fare. E aveva riattaccato.

Erano sbigottiti. Remo aveva sempre detto che mai e poi mai sarebbe andato a vivere con la figlia, erano caratterialmente incompatibili. Ma si sa, quando ci si sente forti si dicono tante cose; poi, nei momenti di fragilità, la vita richiede adattamenti e compromessi. Che si fosse ammalato? Che avesse perso la memoria? Alla sua età, alla loro, poteva succedere.

Berto si alzò improvvisamente. Avrebbe provato lui a chiedere notizie di Remo alla figlia. Di solito aveva fortuna con le signore sfruttando la sua innata simpatia e la sua balbuzie, anche se non era del tutto sicuro che questa volta avrebbe funzionato.

“Aa-aaspet-taa-temi qu-qui”, disse. “T-too-torno f-f-f-fra d-die-ddieci mminuti.” E sparì.

Tornò con la coda fra le gambe. Nessuna donna lo aveva mai trattato così. La figlia di Remo gli aveva intimato di non romperle le scatole. Proprio così. Aveva ancora nell’orecchio accostato al campanello il frastuono del citofono sbattuto per chiudere la comunicazione.

Vittorio stava proponendo di avvisare Chi l’ha visto? quando si avvicinò al loro tavolo un cliente del bar che avevano salutato altre volte.

“Scusate se vi disturbo. Siete gli amici di Remo, vero?”

“Sì, siamo noi. Siamo preoccupati, non riusciamo a metterci in contatto con lui”.

“L'ho visto oggi, quando sono andato a trovare mio padre. Sapete, è ricoverato nella casa di riposo di Montebello. Uscendo ho visto Remo, era in pantofole. Mi sembrava tanto solo. Ho provato ad avvicinarmi per salutarlo ma lui mi ha girato le spalle e se n’è andato.”

Lo ringraziarono e si guardarono con gli occhi lucidi. Povero Remo, solo. Decisero di andare subito da lui.

Li bloccarono alla portineria. Il signor Remo Zalli aveva richiesto la massima privacy, non desiderava le visite. Rimasero in silenzio, un po’ confusi. Possibile che fosse così cambiato? Il loro Remo era l’esempio della socievolezza. Si avviarono verso l’uscita, mogi mogi, facendo passare un gruppo di persone che salutò cordialmente la portinaia. quando improvvisamente Tino fece dietro front e si mescolò tra loro. Non sapendo dove fosse Remo, cominciò da una sala comune, dov’era accesa una televisione che nessuno guardava. Fu fortunato. Ad un tavolo c’era Remo con un bicchiere di cioccolata calda in mano che fissava cupo un punto imprecisato oltre la vetrata.

“Remo, amico mio! Ti abbiamo cerca…”

“Vattene, non ti voglio!” Gli gridò contro Remo, incattivito. “Se entri qui diventi triste e solo, vai via!” In quel momento arrivarono anche gli altri e le ragazze corsero ad abbracciare Remo, a carezzarlo. Anche i ragazzi gli si avvicinarono, toccandogli una mano o battendogli affettuosamente le spalle, commossi. Di fronte a quella manifestazione di affetto sincero Remo perse la corazza che si era imposto e si mise a piangere, piano.

Era andata così. Lui si sentiva invecchiare e sua figlia gli aveva proposto di vivere insieme per ridurre le spese. Conosceva il carattere di Elisa, scontroso e acido, ma sperava sempre che con il passare degli anni si fosse addolcito. Non era cattiva, però il nervosismo che spesso le esplodeva dentro la rendeva intrattabile e mortificatrice. I primi giorni erano andati bene, poi la convivenza era diventata sempre più difficile. Remo si sentiva umiliato e allo stesso tempo non ce la faceva più a stare solo giorno e notte. Non aveva voluto parlarne con loro per nascondere il comportamento riprovevole di Elisa. Così, avvilito ma determinato, aveva fatto qualche telefonata, caricato due trolley sulla sua minicar e si era diretto verso Casa Silvana. Da allora la figlia, risentita, non si era più fatta viva.

“Remo, se non vuoi che noi veniamo qui, devi venire tu da noi.”, disse Piero, il più taciturno fra loro ma anche il più risoluto. “Ogni domenica verremo a prenderti, a turno, e poi la sera ti riporteremo qui. Finché ci rinnoveranno la patente, D’accordo, ragazzi?” “E dopo il pranzo di capodanno in trattoria, le domeniche successive mangeremo insieme qualcosa di semplice a casa nostra, vero Olimpia?” “Certo, Agnese, e i ragazzi ci aiuteranno.”

I ragazzi assentirono, commossi e sollevati. Di affetti ne avevano persi anche troppi.

Erano di nuovo insieme.

Del tempo che passa mi piace la gente che resta


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