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  • Donatella Bizzotto

TI VEDO!

Una caratteristica di mia madre era l’uso di espressioni tipicamente venete e frasi lapidarie aventi come soggetto gli occhi, tipo tirar oci provando meraviglia o che non vedessi più le mie figlie se voleva convincere, e per farlo risaltare le accompagnava ad un’espressiva mimica facciale tutta sua. Oppure, senza parlare, usava i suoi occhi come linguaggio non verbale per trasmettere intesa o l’intensità delle sue emozioni positive o negative. Ad esempio, quando era di buonumore e voleva farci ridere, si esibiva in smorfie esilaranti alla maniera dei Brutos, facendo roteare gli occhi, strabuzzandoli, incrociandoli. Uno spasso.


Per contro, in certi periodi tendeva ad esercitare il controllo di fronte a situazioni ed emozioni che non riusciva a dominare.

Non volle mai prendere la patente ma era ugualmente co-pilota quando mio padre guidava: non si perdeva un cartello stradale e dalle indicazioni ricavate, lette ad alta voce, anticipava al paziente autista le insidie del percorso per “guidarlo”. A volte controllava il tachimetro se le sembrava che la velocità del veicolo aumentasse, cosicché era un OCIO! dopo l’altro che costringeva mio padre ad inserire la sordità selettiva.



Aveva un radar al posto degli occhi per trovare parcheggio: appena ne individuava uno disponibile, scendeva a razzo dall’auto e si fiondava occupando lo spazio mentre mio padre eseguiva le manovre. Si sarebbe fatta investire pur di aiutarlo. Se lui le indicava che c’era già qualcuno in attesa di parcheggiare prima di loro, di togliersi, lei chiudeva gli occhi (uno dei pochi momenti in cui lo faceva) e allargava le braccia come l’ALT di un vigile. Spesso gliene dicevano di tutti i colori, ma alla fine se ne andavano imprecando. A quel punto mamma apriva gli occhi e rivolgendosi a noi esclamava: “Visto? Che ci vuole?” Mio padre scuoteva la testa, ma sono sicura che sotto sotto gli venisse da ridere, come succedeva a noi.

Mamma non guidava l’auto ma il motorino sì e anche se non era più adolescente, come una ragazzina sfrecciava ronzando e assaporando il senso di piccola libertà che le dava l’aria tra i capelli.

Quando ebbi 13 anni, anch’io cominciai a chiedere maggiore indipendenza. In quel periodo, dopo le raccomandazioni che tutte le mamme fanno, iniziò ad aggiungere “guarda che TI VEDO anche se non ci sono”. Inizialmente temetti di doverci credere davvero, perché senza che glielo dicessi conosceva i posti dove mi ero trovata con i miei amici e se c’erano ragazzi nuovi o chissà quali pericoli. Poi capii che mi seguiva raggiungendomi ovunque con quel suo motorino finché una sera, a tavola, esposi il problema. Papà intervenne come al solito con poche e ferme parole e finalmente i pedinamenti diminuirono; che cessassero era una pia illusione, idem l’avviso “ricordati che TI VEDO lo stesso”.


Finiti gli studi andai a vivere da sola. Ogni tanto mamma si presentava all’improvviso con qualche bella maglia che mi aveva confezionato e ispezionava l’appartamento con la scusa di vedere la disposizione dei mobili o il panorama dalle finestre. Una volta, a febbraio, trovò un passamontagna nero buttato su una sedia.

Mi aggredì con gli occhi fuori della testa: “Tu! Ti sei messa a fare la terrorista?”

Erano gli anni di piombo e nel Veneto numerosi attentati ferivano, gambizzavano, uccidevano le persone. Ma a me la politica, tanto meno quella malata, non interessava proprio. Mi coinvolgevano di più i diritti umani, le conquiste sociali femminili, la mia formazione professionale. Esasperata le mostrai il costume da pagliaccio lì accanto, e le spiegai stizzita che non avendo trovato una cuffia, era fine stagione, avevo acquistato il passamontagna aggiustandolo alla bell’e meglio; non aveva visto il grosso fiore con la pompetta d’acqua che era attaccato?


Durante le sue visite mamma controllava anche il livello dello Jagermeister, l’unico liquore che avevo in casa e che non beveva nessuno. Se c’erano bicchieri nel lavello della cucina che non avevo lavato, pensava che mi fossi data ai bagordi con chissà chi e poi avessi eliminato le bottiglie.

Questa apprensione continuò anche quando mi sposai e venni ad abitare a Chieri. L’appartamento aveva una sola camera da letto ed io e mio marito decidemmo di dormire sul divano in salotto per lasciare il letto ai miei genitori in visita da noi. Su un mobile che conteneva due bottiglie di liquore avevo posato un bicchiere d’acqua per la notte. Mamma l’afferrò ed annusò.

“È acqua!”, esclamò strabuzzando gli occhi per la sorpresa. Credeva fosse grappa. Da allora, finalmente, non temette più che diventassi un’alcolizzata.

Quando scoprii di aspettare un bambino, andai dai miei per annunciare la bella notizia di persona e verificare se veramente mamma sapesse leggermela in viso; quante volte aveva riconosciuto una donna in attesa alla prima occhiata!

“Mamma, guardami. Vedi qualcosa?”, le chiesi sorridendo.

“Cosa dovrei vedere?”, mi chiese incuriosita.

Insomma, aveva perso i suoi poteri. Smise di fare la detective e si buttò a capofitto a fare la nonna. Spesso, senza parlare, usava i suoi occhi per trasmettere l’intensità delle sue emozioni verso i suoi amatissimi nipoti. Quando voleva farli ridere, si esibiva anche con loro nel suo repertorio di smorfie esilaranti alla maniera dei Brutos, facendo roteare gli occhi, strabuzzandoli, incrociandoli. Per i bambini era uno spasso.

Nel passato mamma aveva visto veramente quello che altri non notavano. Alcune donne arrivavano nel suo negozio con lividi e segni di botte che cercavano di nascondere. Lei riusciva a farle parlare, a confidarsi, a dare loro un po’ di consolazione o un rifugio momentaneo a casa nostra dove si sentivano protette dalla presenza rassicurante di papà. Qualche volta lei e mio padre le accompagnavano al pronto soccorso per farsi medicare ma le esortazioni dei medici a denunciare non furono mai ascoltate. Queste storie, che sembravano non finire mai, cessavano solo con la vedovanza.

Aveva novant’anni, mamma, quando arrivò il Covid. Sopportò l’isolamento nella casa di riposo cercando sempre di infonderci coraggio e rassicurarci. “Sto bene, non mi fanno mancare niente”, ci diceva al telefono. Ma era grata a mia sorella che si ingegnava a comunicare con lei attraverso i vetri di una finestra al pianterreno dell’edificio, poiché non era possibile entrare. Si scambiavano baci mimati e sguardi amorevoli sopra le mascherine, ma sono sicura che Ivana usasse gli occhi anche per farla sorridere. Tra noi due è lei che ha ereditato da mamma la capacità di utilizzarli in modo divertente ed espressivo.


Subentrò un problema intestinale – sottovalutato - e per mamma fu necessario il ricovero; ma ormai era debilitata dalla sofferenza, il suo tempo stava finendo. In ospedale furono pietosi e permisero a noi figlie di starle vicino purché vestite da capo a piedi con indumenti protettivi monouso. Quando arrivai, mia sorella era già lì con lei. Mamma era in stato di sopore, ma la vidi aprire gli occhi.

“Guardami, mamma, sono Donatella, sono arrivata”, e mi tolsi la mascherina per farmi riconoscere.

Il suo sguardo cercò di mettermi a fuoco.

“Ti vedo!”, dissero i suoi occhi, e fu l’ultima volta.





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