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  • Donatella Bizzotto

Primi amici


Arrivò la primavera e sentimmo il suo richiamo a giocare in cortile.

Inizialmente aspettavo Daniele per uscire, poi non fu più necessario: imparai a stare in ascolto e non appena lo sentivo scendere le scale ero già sul pianerottolo.


Un giorno sentii dei passi diversi dai suoi, con un altro ritmo. Socchiusi la porta di casa con circospezione e con mia grande sorpresa vidi che si trattava della bambina con le lunghe trecce scure.


Ho dimenticato i primi momenti della nostra conoscenza ma ricordo che poco dopo eravamo in cortile a raccontarci di noi: che io avrei voluto una sorella e che lei ne aveva una piccola, Mimma; dei regali di Babbo Natale; cosa avevamo fatto quel giorno e cosa avremmo fatto da grandi…

Fu così che Patrizia diventò la mia prima amica.


Con lei, Daniele e Lucia inizialmente giocavamo in cortile a far-finta-di simulando riti e cerimonie, ruoli e comportamenti di persone conosciute o anche lontane dal nostro quotidiano. Questo condividere idee ed emozioni nel costruire e rappresentare le varie storie sviluppò il nostro spirito di gruppo: non ricordo il minimo sgarbo fra noi, grazie anche alla sensibilità di Daniele che riusciva a dirimere ogni piccola incomprensione.


Giocavamo a cowboy e indiani - noi eravamo gli indiani - e a Robin Hood e Ivanhoe con l’arco e le frecce che Daniele ci aveva insegnato a costruire con rami di salice. Il cattivo non lo faceva nessuno, però c’era lo stesso un nemico invisibile che combattevamo insieme; era bellissimo immaginare di essere nella foresta e contare l’uno sull’altro.


Più avanti ci appassionammo al gioco del campanón che richiedeva l’abilità di saltellare con una gamba sola per tutto il percorso. Diventò uno dei nostri giochi preferiti.

Sul marciapiede davanti a casa – che allora era largo almeno il doppio rispetto a quello di oggi - disegnavamo il tracciato con un gessetto o un pezzetto di laterizio. Il campo di gioco risultava più o meno come quello dell’immagine a fianco e ogni riquadro, alto almeno il doppio di un nostro piede, rappresentava uno dei giorni della settimana.


Si giocava a turno, facendo la conta per stabilire a chi toccava. Il sorteggiato iniziava il gioco lanciando un sassolino piatto sulla prima casella; saltando su una gamba sola doveva afferrare il sasso senza perdere l’equilibrio, senza metter giù l’altro piede o toccare le linee e percorrere tutto il percorso fino alla casella della domenica dove poteva finalmente posare a terra entrambi i piedi; poi, sempre saltellando, faceva il percorso inverso fino alla casella del lunedì e usciva dal campo di gioco. Se sbagliava saltava il turno e riprendeva da dove aveva sbagliato, altrimenti lanciava il sasso sulla seconda casella e così via.

Acquistata una maggior abilità, introducemmo la variante di spingere il sasso con il piede; superata questa prova dovevamo avanzare saltellando con un piede solo ma senza guardare, con il viso rivolto al cielo. Ad ogni saltello si pronunciava Am e se si procedeva correttamente i compagni di gioco rispondevano Salam… Era difficile non perdere l’equilibrio saltellando con il naso all’insù; chi sbagliava pestando una delle linee o posando il piede a terra saltava uno o più turni.

Erano regole ferree ma le rispettammo sempre.



Un giorno Patrizia ci raccontò che suo papà aveva una collezione di minerali.

“Che cosa sono i minerali?”, chiesi.

“Sono pietre. Ma luccicano. Sono cristalli, insomma.”

Che parole misteriose… Sapevo di bicchieri di cristallo che però somiglia al vetro, non alle pietre. E che il marmo è una pietra ma diversa da quella dei paracarri e dei ponti. Ne capivo meno di prima.

Intanto Daniele aveva raccolto un sassolino bianco e verde come il gorgonzola e luccicante al sole. “Guardate! Brilla!”

Ci avvicinammo per guardare meglio. In effetti…

“Però i cristalli di mio papà hanno colori più belli.”

“Non puoi farceli vedere?” Ormai ci eravamo incuriositi.

“Devo chiedere il permesso ai miei genitori.”


Non vedevamo l’ora di poter guardare quei cristalli, e Patrizia di mostrarceli per condividere con noi la loro bellezza. Ogni volta che incontravamo sua mamma speravamo che ci invitasse a salire. Finché un giorno ci chiamò: “Bambini, guardate pure ma non toccateli, mi raccomando.”

La stanza era in penombra ma un cono di luce illuminava la superficie di un tavolino sopra il quale c’erano i minerali decantati da Patrizia: irradiavano luce e splendore. Aveva ragione, erano bellissimi! Glielo esprimemmo con calore, poi restammo in silenzio ad ammirare estasiati i loro magnifici colori che riflettevano la luce dalle numerose sfaccettature. Erano la cosa più bella che avessi visto mai.

Ancora oggi ricordo l’intensità di quell’incanto.

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