Il giardino della signorina Colomba
A lato della casa in cui abitavo allora c’era una stradina sterrata che portava al cortile dei garage e che proseguiva in direzione dei vicini pendii del Monfenera diramandosi in un dedalo di viuzze, ciascuna delle quali finiva davanti a un cortile e la sua casa.
Poco prima di quelle diramazioni c’era un bellissimo giardino grande, mi sembrava allora, quanto tre grosse stanze e delimitato da una rete metallica su cui in estate si arrampicavano ipomee violacee. Era stipato di piante da fiore tra le più belle e profumate. In ogni periodo dell’anno si alternavano profumi e colori, dal calicanto alle bacche invernali e in mezzo bucaneve, iris, bergenie, camelie, viole, primule, violacciocche, tulipani, giacinti, peonie, gigli candidi, rose, gladioli e poi cespugli di spirea, cotogno del Giappone, gelsomino, rose rampicanti, lillà, ortensie; al centro, un amarasco e un melograno sembravano volersi abbracciare tanto erano vicini. Nel terreno si intravedeva a tratti qualche piastrella disposta diagonalmente una dietro l’altra, esile traccia di un sentiero e di un ordine ormai scomparso.
Quella primavera vidi per la prima volta la signorina Colomba. Era anziana ma non somigliava alle sue coetanee vestite di scuro col fazzoletto in testa e il grembiule. Pingue e morbida, sembrava della stessa consistenza della gomma americana che avevo masticato per la prima volta pochi giorni prima; i suoi capelli bianco-azzurrini ricordavano la fata Turchina e le labbra erano di un rosa vivace come i fiocchi delle mie scarpe di vernice.
La signorina Colomba non parlava, sospirava. Se qualche vicino, passando, le chiedeva più o meno malamente “Colomba, quando ti decidi a tagliare questa boscaglia?” - la domanda era sempre la stessa - lei rispondeva con un sospiro, accarezzava il ramo o il fiore più vicino e sembrava perdersi in qualche rimuginio. Ma bastava il volo di una farfalla o il cinguettio di un uccello che ritornava sorridente ad accarezzare i suoi fiori.
Avrei pagato chissà cosa per entrare nel suo giardino.
“Posso entrare?” Le chiesi finalmente un giorno. Mi fissò quasi sorpresa. Poi, senza proferir parola, mi girò le spalle e si addentrò in quel mondo imperfetto e fatato di colori e profumi.
Passò l’estate, venne l’autunno e nella fattoria in fondo alle viuzze aspettavano l’arrivo del gran freddo per uccidere il maiale.
Il giardino della signorina Colomba era bellissimo e suggestivo anche in quel periodo dell’anno; somigliava alle illustrazioni delle cartoline, con le bacche rosse della rosa rugosa e quelle bianche del sinforicarpo che sbucavano tra la vegetazione animata da qualche pettirosso.
Quella fredda mattina passai a guardare il giardino, allungando occhi e orecchie verso la fattoria da cui provenivano voci concitate e suoni nuovi: uomini spingevano un maiale nell’aia dove lo attendevano una panca e dell’acqua bollente in un gran calderone. Il maiale era agitato, si dibatteva, piangeva, era uno strazio sentirlo, e con lui piangeva disperato un bambino della fattoria a cui era stato assegnato il compito tribale di tagliargli la coda, rito di passaggio di un mondo contadino. Premetti i palmi delle mani sulle orecchie per non sentire. Anche la signorina Colomba, nel giardino, mi stava imitando con gli occhi sbarrati.
Improvvisamente, malgrado diversi uomini cercassero di tenerlo fermo, il maiale riuscì a fuggire. Grida, pianti umani e animaleschi. Iniziò un drammatico inseguimento. Ero terrorizzata da quella corrida che mi lasciò il ricordo immutabile di un’indicibile sofferenza.
Piangendo mi voltai verso la signorina Colomba, mi stava tendendo le braccia invitandomi ad entrare nel suo giardino fatato. Mi accompagnò in silenzio tra gli arbusti addormentati, mi indicò i piccoli segnali di risveglio della vegetazione, il nido di un merlo: fu una passeggiata inneggiante alla vita nel silenzio solenne dell’attimo della morte. Gliene fui grata.
Arrivò la fine di gennaio e finalmente ebbi il permesso silenzioso della signorina Colomba di poter visitare il suo giardino ed esplorarlo da sola. Ero al settimo cielo.
Entrando, avvertii un profumo di un’intensità incredibile, una fragranza delicatamente dolce senza essere fastidiosa che si sentiva a distanza di metri, impossibile da immaginare d’inverno. Veniva dal calicanto i cui fiori piccoli e gialli come minuscoli soli catturano lo sguardo dando un assaggio di primavera. Ammirai da vicino le gemme rosee del cotogno del Giappone che si stavano aprendo sui rami senza foglie, scoprii i bucaneve, i germogli dei tulipani e dei giacinti tra le foglie secche, osservai altre gemme pregustandomi le loro imminenti fioriture. Intanto aspiravo a pieni polmoni l’aria profumata annusandomi la pelle delle mani sperando che ne fosse intrisa.
Arrivò un'epidemia di morbillo, fui contagiata e per un po’ restai chiusa in casa.
Quando il dottor Sartorello mi diede il permesso di uscire, ritornai al giardino ma la signorina Colomba era sparita. Capii che non l’avrei rivista mai più qualche settimana dopo, quando vidi smantellare quel paradiso. Per qualche giorno fui triste ma poi quel dolore passò: ero pronta per straordinarie avventure con i miei amichetti della casa e iniziai a desiderare una sorella come avevano loro. Tuttavia il ricordo di quel luogo incantato pervaso dal profumo di calicanto mi rimase dentro per sempre e oggi tutti quei fiori e quei profumi rivivono nel mio giardino.
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