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Donatella Bizzotto

A scuola dalle suore





Nel 1962 le scuole elementari di Pederobba erano in un edificio posto lungo la via principale, poco lontano dall’ospedale. Tuttavia ogni cinque anni l’insegnamento era affidato a delle maestre religiose di un istituto canossiano nei pressi della chiesa parrocchiale.

La turnazione stabilì che noi nati nel 1956 avremmo avuto per maestre le suore; fummo divisi in due sezioni.


Quell’anno ci furono delle novità: il nostro grembiule era blu oltremare e non bianco o nero, al posto del fiocco avevamo una cravattina bianca di picchè e nell’elenco del materiale da acquistare c’era una penna stilografica, più semplice da usare rispetto al canotto con il pennino; piccole note di modernità che potevano far sperare in un’adeguatezza al presente anche dei metodi d’insegnamento. Non fu così, purtroppo, e il secondo ricordo "Rimani gentile" lo testimonia.


Fra i miei compagni di classe ricordo Franca che compie gli anni il mio stesso giorno, Patrizio, Gabriella, Franco, Alberto, Cinzia, Maria Antonietta e Giovanni. In un primo tempo ci fu anche la mia amica Patrizia che poi passò all'altra sezione con madre Elena, dove forse c'era anche Luciana che abitava vicino a noi dalle parti della Casa Rossa.

  • IN CRAVATTA

Il primo giorno la nostra insegnante ci spiegò che non dovevamo chiamarla Maestra ma Madre. Aveva un’età indefinibile e l’espressione austera che ispirava soggezione ma quando di rado sorrideva il suo viso si illuminava e diventava bella. Era la mia maestra! La guardavo ammirata mentre con dei gessi colorati disegnava alla lavagna un’ape che volava sui fiori variopinti. Il maestro Manzi, di cui avevo seguito le lezioni di italiano alla tv, non usava i gessi a colori come lei e disegnava solo in bianco e nero. Mi avvicinai per dirle che avevo imparato a scrivere le lettere dell’alfabeto. Aspettavo trepidante che mi mettesse alla prova, invece mi squadrò severa e mi rispedì al mio posto. Niente di più. Avrei voluto raccontarle che sull’abbecedario che mi aveva comprato papà c’era la N di narvalo ma non mi azzardai; capii all’istante che non era aria.


Mi piaceva andare a scuola! Avevamo imparato a scrivere senza staccare la penna dal foglio, a leggere, a descrivere la noce, la vendemmia, il frumento e il ciclo del grano, l’erba, lo sfalcio del fieno, il maggengo... Ogni giorno la Madre ci insegnava qualcosa ed io tornavo a casa entusiasta dei miei voti e dei miei compagni.


Le ore e i giorni passavano velocemente. Eravamo arrivati alla gn di gnomo e un bambino aveva di nuovo sbagliato qualcosa; la Madre si arrabbiò molto e sottolineò più volte l’errore con la sua matita rossa, poi strappò rabbiosa il foglio del quaderno e glielo attaccò sulla schiena. Infine ordinò a noi che facevamo la sua stessa strada di controllare che non lo togliesse e di riferirle l’indomani. Fummo colpiti dalla reazione della maestra. Il giorno dopo, solerti, riferimmo alla Madre che il bambino, a pochi passi da casa, si era tolto il foglio di dosso.


Questi episodi si ripeterono. Ma, se inizialmente mi adeguai all’autorità della maestra e anzi, ero/eravamo convinti di fare bene, in seguito iniziai a provare disagio: non volevo più controllare e riferire. Quel bambino aveva i genitori che lavoravano in un’altra regione e anche se viveva con la nonna forse sentiva la loro mancanza, e pensando a loro si distraeva. Come mi sarei sentita io al suo posto? E se qualcuno mi avesse umiliato così? Non sapevo come fare. Decisi di non condividere più il suo percorso verso casa e tardai ad incamminarmi. Scoprii così che un mio compagno abitava alla fine del paese e potevamo fare un bel pezzo di strada insieme. Era Alberto.


Un giorno la Madre parlò alla nostra classe della rabbia canina che in Italia era ancora diffusa e costituiva un rischio serio per la salute; ci spiegò come appariva un cane rabbioso e dei gravi danni di un suo morso. Forse seguiva le indicazioni di una campagna che mirava a debellare il virus diffondendo maggiori informazioni ed esortando a vaccinare i cani domestici. A questo proposito ricordo che il vigile locale eseguiva controlli per accertarsi che i cani fossero tenuti in regola. Ascoltai con interesse la spiegazione della Madre, in particolare la descrizione del cane ammalato di rabbia e considerai sollevata che il simpatico cagnolino dei miei vicini Sisto e Agnese dei Castelli, godeva di ottima salute.


Intanto Alberto aveva trovato un percorso alternativo molto interessante, parallelo a un tratto di via Roma grosso modo all’altezza delle scuole comunali: era un breve sentiero lungo una specie di canaletto che seguiva la linea delle case, forse destinato allo scolo delle acque, in cui c’erano barattoli di latta vuoti che avevano contenuto pomodori pelati o tonno, resti di camere d’aria, pentole e scolapasta inservibili e altre cose del genere. Per esaminare meglio tutti questi nostri ‘reperti’, spostavamo i vari oggetti con un pezzo di legno o il manico rotto di un ombrello. Quello era il nostro mercato delle pulci e il gioco consisteva nell’immaginare una nuova vita per tutto quel ciarpame; durava pochi minuti, ma che avventura!


Un giorno, riaffacciandoci su via Roma, ci imbattemmo in un cane di media taglia. Sembrava apparso all’improvviso ed è probabile che anche lui avesse pensato di noi la stessa cosa. Forse si impaurì, fatto sta che reagì ringhiando. Io, che non avevo grande esperienza di cani, ricordai la lezione sulla rabbia e credetti che il ringhio ne fosse un sintomo. Ero impietrita dalla paura. Alberto se ne accorse e si pose fra me e il cane; poi, con decisione, riuscì ad allontanarlo. Fiuu, ero salva.

Fu così che il mio amico diventò un eroe (ma non osai dirglielo).

  • RIMANI GENTILE. UNA STORIA DI RESILIENZA

La resilienza è la capacità di autoripararsi dopo un danno e di riuscire a riorganizzare positivamente la propria vita nonostante situazioni difficili.

"Mrs. Gargery era una casalinga molto pulita,

ma possedeva un'arte squisita di rendere la sua pulizia

più sgradevole e inaccettabile della sporcizia.

La pulizia è vicina alla religiosità,

e alcune persone si comportano allo stesso modo

con la loro religione."

Charles Dickens

La suora maestra entra nell’aula con un catino pieno d’acqua e lo posa sopra uno sgabello che poco prima ha disposto al centro della stanza. Esce di nuovo e ritorna con una saponetta da bucato e una spazzola di saggina. Fa tutto questo in silenzio, con aria sorniona. II bambini la guardano incuriositi.

“Oggi”– spiega finalmente la suora maestra – “vi parlerò dell’igiene personale. Sarà una lezione pratica, per cui ho bisogno della collaborazione di uno di voi.”

“Che bello, sarà divertente!” pensa la bambina. “Spero che scelga me.”

Invece la suora maestra si dirige verso un bambino e lo conduce accanto al catino facendolo restare in canottiera. In un primo momento il bambino si vergogna un po' a mostrarsi così, curva le spalle e si raccoglie incrociando le braccia. Ma poi gli passa e lascia emergere la sua felicità, per una volta è lui al centro dell’attenzione.

La bambina è un po’ delusa ma poi vede l’espressione raggiante del compagno e sorride con lui.


Inizia la lezione. Prima la suora maestra mostra come lavarsi le mani e sotto le unghie usando vigorosamente il sapone e la spazzola sulle piccole mani del bambino; lui si offre e collabora, il resto della classe osserva.

Tocca a viso, collo e orecchie. La suora maestra insapona il bambino fin sugli occhi; lui li strizza, bruciano, ma resiste e fa delle boccacce che fanno ridere tutti. La suora maestra ripassa di nuovo il sapone; questa volta il bambino è lesto, lo rimuove dagli occhi e mima un’espressione beata mentre l’insegnante finisce di insaponarlo; sembrano carezze e lui, che non ne ha ricevute certo molte, se le assapora. Ma questo bene dura un attimo. La suora maestra gratta, strofina, preme; i fili duri della spazzola graffiano la pelle delicata del bambino. Il bambino non sorride più, prova dolore, eppure riesce a trattenere le smorfie. Resiste. La bambina registra tutto questo, non vede l’ora che finisca. Finalmente la suora maestra termina la lezione ed asciuga il bambino soddisfatta. Forse non vede la pelle arrossata e abrasa, i graffi nell'anima; forse li vede ma non se ne cura. Va bene così; ora che è tutto finito il bambino è contento: è riuscito a resistere, ma che fatica!


Qualche giorno dopo la suora maestra entra nell’aula con un catino pieno d’acqua e lo posa sopra uno sgabello che poco prima ha trascinato con malagrazia al centro della stanza. Esce di nuovo e ritorna con una saponetta da bucato e una spazzola di saggina. Fa tutto questo nervosamente, a labbra serrate.

I bambini guardano. “Ancora?”

La bambina ricorda lo strofinio indelicato, il viso della suora maestra, l’espressione del bambino, i segni sulla pelle. Questa volta non spera di essere chiamata.

Con sorpresa l’insegnante chiama ancora quel bambino. Lui fa buon viso a cattiva sorte e si sottopone di nuovo a quella “lezione”. Tenta di fare lo spiritoso e qualcuno ride, ma poi una grattata più dolorosa lo fa tornare serio e subisce quelle mani nervose. Il sapone negli occhi, però, no, non lo accetta; se lo toglie subito.

Le “lezioni” spietate si ripetono troppe volte. Ormai i bambini non guardano più, fanno altro mentre si consuma quella forma di sacrificio. La bambina no, guarda, per fargli compagnia.

Quando succede, dopo, lui non aspetta la bambina; vuole restare solo e tira calci ai sassi. Lei lo segue da lontano, si chiede perché solo a lui.


"Nel piccolo mondo in cui i bambini vivono la loro esistenza,

chiunque li allevi, non c'è nulla che venga percepito

più acutamente dell'ingiustizia."

Charles Dickens

La suora maestra lo sa, perché: è l’odore che assorbono i capelli e gli indumenti di chi lavora con gli animali. E forse lo ha capito anche il bambino - che pur si lava - ma non può far diversamente, è necessario anche il suo aiuto per governare i pacifici animali sostentamento della famiglia.

Ma la bambina quell’odore non lo sente; non lo sente nemmeno la sua mamma quando quel bambino entra nella loro casa.


La bambina non vuole più andare a scuola, soffre per i modi con cui la suora maestra si rivolge al bambino che, malgrado tutto, è sempre puntuale e presente. Un giorno, durante l'ennesima ispezione delle orecchie e delle unghie ai bambini di tutta la classe, la bambina fraintende un movimento improvviso della suora maestra; teme il colpo sulle nocche come è successo al bambino e ritira le manine. Due mani gliele afferrano e come artigli le aprono con forza i piccoli pugni.

Poi la bambina cambia città.

Anni dopo, il bambino diventato giovane uomo va a cercare la bambina diventata giovane donna. Si raccontano cos’è successo nel frattempo, si promettono che cercheranno di dare sempre il meglio di sé.

E così è stato.

Ora hanno 63 anni. Sono Alberto e Donatella

Rimani gentile.

Non lasciare che il mondo ti renda insensibile.

Non lasciare che la sofferenza ti lasci odiare.

Non lasciare che l’amarezza rubi la tua dolcezza.'

Kurt Vonnegut

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